Pet brands 
lunedì, 14 maggio, 2012, 00:47 - Generale

Pet è la parola inglese che indica un animale da compagnia. Ultimamente, tuttavia, la definizione si è estesa fino ada arrivare a comprendere qualunque tipo di oggetto che dia o richieda una relazione emotiva con il suo proprietario.
Il marchio è invece l'identità con la quale si commercializza un prodotto, il che non sta a significare necessariamente che questa lo realizzi o lo fabbrichi; al contrario gli conferisce visibilità sul mercato e lo differenzia da altri prodotti simili.
Un pet brand è dunque un marchio inteso come elemento emotivo e perciò privo di qualunque funzione economica.
I pet brand hanno molta visibilità, e a crearli sono solitamente importanti professionisti o personaggi famosi. Siamo quindi di fronte a uno scenario in cui la professione diventa un passatempo e il business è inteso come svago.
Il valore di questo tipo di marchi, soprattutto in questo momento storico in cui internet e il mercato globale promuovono la standardizzazione e la globalizzazione, diventa dunque molto specifico e personale.
Nel campo delle coltivazioni biodinamiche si può citare l’esempio del designer Alberto Alessi che, nella sua vigna è passato, nel giro di 30 anni, da una produzione di 300 bottiglie di vino bianco a un numero decisamente più consistente.
Passando dal mondo del design a quello della musica, l’esempio più eclatante è quello di Sting che, nel proprio agriturismo toscano, produce prodotti al 100% biologici coltivati direttamente da lui, che ama definirsi un contadino rock.
Anche Mick Hucknall, cantante dei Simply Red, si è lanciato nel mondo della produzione di vini, specializzandosi in un Nero d'Avola e in un Etna Rosso.
Esistono tanti altri casi di pet brand, ma il tratto comune di tutti questi produttori è uno: mettere in piedi attività professionali solo per divertimento.
I pet brands sono il futuro dei beni alimentari di qualità anche se rappresentano solo un mercato di nicchia. Economicamente parlando non generano un ricavo diretto o comunque non assicurano un ampio margine di guadagno, ma il beneficio è da contestualizzare, eventualmente, nell'ambito dei crossmedia. E' l'industria alimentare della nuova economia, quella post-crisi. Un'economia d'autore che promuove le diversità e rompe una serie di tabù del mondo del commercio, ridefinendo al tempo stesso il concetto di business. Un nuovo business di imprenditori che si divertono lavorando e marchi da coccolare come morbidi animaletti domestici.

Rocco Francesco Piserà
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Not just a bottle 
domenica, 13 maggio, 2012, 23:48 - Generale


A kick-ass arrangement of three sparkling Ursus beer bottle necks :P

I actually rarely drink beer but could not resist to share this cheeky beer :P

It is most probably fan-made and features the Romanian brewery brand Ursus, which is Latin for beer.

Cheers!
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Brasile, i like di Facebook arrivano in negozio 
domenica, 13 maggio, 2012, 16:03 - Social networks


La catena d'abbigliamento C&A utilizza i facebook likes come volano per le vendite nel retail: sulle grucce c'è il conteggio dei likes.

Tanti marchi si interrogano su come creare sinergia tra le loro attività off line e quelle on line. Alcuni ci riescono, altri falliscono e creano solo danni. In Brasile, una delle economie più raggianti di questo inizio di secolo, una catena d’abbigliamento ha introdotto un nuovo elemento che riduce quel gap tra on e off line, esponendo i likes che i capi ricevono online direttamente sulle grucce.

Come si evince dal video, le persone che visitano il negozio possono essere influenzate nell’acquisto dalla popolarità che i capi hanno sulla pagina Facebook della catena, rendendosi conto di quanto un capo sia apprezzato o quanto un capo sia alla moda. Il sistema aiuta sicuramente chi è un tipo indeciso inclinando le proprie scelte su capi che riscuotono molto successo, ma principalmente è un modo originalissimo e creativo per avvicinare i due tipi di clientela di C&A: quella legata all’ eCommerce e quella classica della vita off line.

C&A è una azienda nata in Germania precisamente nella Vestfalia a metà del 1800. Grazie alla loro proattività ed una continua ricerca di innovazione - sono una delle prime aziende ad aver utilizzato cotoni biologici – hanno allargato i loro orizzonti dall’Europa all’America latina.
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Solving the problem isn't the problem 
domenica, 13 maggio, 2012, 13:01 - Generale


The problem is finding a vector that pays for itself as you scale.

We see a problem and we think we've "solved" it, but if there isn't a scalable go-to-market business approach behind the solution, it's not going to work.

This is where engineers and other problem solvers so often get stuck. Industries and organizations and systems aren't broken because no one knows how to solve their problem. They're broken because the difficult part is finding a scalable, profitable way to market and sell the solution.

Take textbooks, for example. The challenge here isn't that you and I can't come up with a far better, cheaper, faster and more fair way to produce and sell and use textbooks. The problem is that the people who have to approve, review and purchase textbooks are difficult to reach, time-consuming to educate and expensive to sell.

Or consider solar lanterns as a replacement for kerosene. They are safer, cheaper and far healthier. But that's not the problem. The problem is building a marketing and distribution network that permits you to rapidly educate a billion people as to why they want to buy one at a price that would permit you to make them in quantity.

Sure, you need a solution to the problem. But mostly what you need is a self-funding method to scale your solution, a way of interacting with the market that gains in strength over time so you can start small and get big, solving the problem as you go.

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Les vins français en perte de vitesse, la faute au marketing 
domenica, 13 maggio, 2012, 10:09 - Generale


La France est passée de la première à la troisième place des pays exportateurs de vin, derrière l'Italie et l'Espagne. Une dégringolade qui pourrait encore s'accentuer avec l'émergence de gros producteurs, tels que l'Inde, la Chine ou l'Argentine. D'après notre Observateur, les mauvais résultats français sont d'abord la conséquence d'une mauvaise stratégie marketing.

Le Nouveau Monde est en train de donner une leçon de marketing au Vieux Continent
Le Nouveau Monde gagne des parts de marché grâce à son marketing de la demande. Ses sociétés viticoles, d'envergure mondiale (Constellation, Foster's Group, Hardys, etc.) sont capables d'investir des sommes d'argent colossales dans leur marketing. De plus, ces sociétés s'appuient sur une distribution continue et une qualité constante de leurs vins, année après année.

Le marketing est la meilleure arme des producteurs de vin du Nouveau Monde. Ils ont notamment réussi à se distinguer par l'étiquetage de leurs bouteilles. Ils ont une approche destinée à aider le consommateur à comprendre ce produit compliqué qu'est le vin, en précisant notamment les cépages utilisés lors de la vinification. Nul besoin, alors, d'être un expert pour savoir ce que l'on va boire.

À la différence du système français des Appellations d'origine contrôlée (AOC), le Nouveau Monde n'est pas contraint par des réglementations rigides. Contrairement à la France, ils n'ont pas recours à la notion de terroir (qui associe des données aussi diverses que le climat, le sol et les heures d'ensoleillement). Les vignerons australiens communiquent sur les cépages utilisés lors de la vinification et sur la région de production des cépages. En France, les experts parlent plus du terroir comme s'il était le facteur le plus important pour donner les arômes au vin.

Évidemment, personne ne peut nier que le terroir joue un grand rôle dans le goût et les arômes du vin. Mais c'est le cépage qui est le facteur clef, le terroir étant d'avantage la marque de la personnalité du vin. Sur un même vignoble, utiliser plus de merlot ou plus de cabernet sauvignon changera les arômes et les qualités gustatives du vin.

Le système d'AOC garantit la qualité des vins en obligeant les vignerons à respecter un rendement plus faible à l'hectare, un taux d'alcool fixe, des procédures d'irrigation, mais aussi l'utilisation exclusive de cépages 'nobles'. Alors, pourquoi les producteurs français s'interdisent-ils d'indiquer les cépages sur l'étiquette frontale de la bouteille?

Comme le relève Xavier de Eizaguirre, président de Vinexpo, avec près de 500 AOC, les vins français sont perçus comme compliqués et peu compréhensibles. Les AOC - par exemple le Châteauneuf-du-Pape - autorisent les viticulteurs à cultiver jusqu'à 12 cépages différents. Qui, à part un expert, peut se souvenir des cépages autorisés pour chacune des 500 AOC? Les vignerons français pratiquent un marketing de l'offre, qui ne prend pas en compte la demande, c'est-à-dire ce que comprend le consommateur.

Le Nouveau Monde est en train de donner une leçon de marketing au Vieux Continent. Le vin est un produit complexe. La région viticole, les cépages, le vigneron, le domaine, ou encore le style du vin sont autant de caractéristiques que le consommateur doit se rappeler. Il est donc nécessaire de donner un maximum d'information au consommateur. Une étiquette doit l'aider, plutôt que le rendre indécis et stressé au moment de l'achat.
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